Giustizia è fatta! Oppure no?

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Giustizia è fatta! Oppure no!

La giustizia italiana: questa, possiamo utilizzare quanti sostantivi-aggettivi vogliamo, resta pur sempre un campo minato. Per esempio l’Italia per via della lentezza, lunghezza e incertezza della pena, aggiungo, dei processi civili e penali è un Paese poco attrattivo per gli investitori esteri perché non garantisce a sufficienza il diritto. Chi sa navigare nel diritto e nei tribunali italici è uno squalo. Per questo motivo C’è un corto circuito tra la gente comune e le sentenze, o meglio tra «la legge è uguale per tutti» e le oneste aspettative . Vedete nel nostro sistema giuridico, l’anacronistica frase “giustizia è fatta”, soddisfa il palato solo quando c’è una condanna, se c’è una assoluzione la questione si complica e di molto.

Prendiamo ad esempio alcuni processi da gogna mediatica inversamente proporzionale: l’affare Ciontoli, o quello di Viareggio o Rigopiano o quello della sfortunata Serena Mollicone, oppure le varie stragi che hanno insanguinato l’Italia fin dal 1969. Processi mediatici con Procure e Procuratori sovraesposti a loro piacimento. Ricorderete pure che alcuni reati sono stati derubricati tanto che alla fine delle udienze tra prescrizioni, condanne miti, assoluzioni  la maggior parte degli imputati, secondo il codice morale e non quello giuridico, l’hanno scampata. E ricorderete anche le aggressioni verbali da parte dei parenti delle vittime e di qualche politico (loro non mancano quando c’è bisogno di visibilità). Forse hanno ragione? Intanto per la morte di Marco Vannini, nel primo processo di appello, la Corte derubricò da omicidio volontario a colpa cosciente il reato con cui venne condannato Antonio Ciontoli.  La Cassazione, nel caso della strage di Viareggio, dichiarò l’estinzione di alcuni reati per intervenuta prescrizione. Qualche mese fa la Corte di Assise di Cassino ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. A fine febbraio di quest’anno un G.U.P. del Tribunale di Pescara ha assolto 25 dei 30 imputati e comminato altre cinque lievi condanne: era il 18 gennaio 2017 e una slavina si abbattè sull’Albergo Rigopiano Gran Sasso Resort. Una tragedia immensa in cui persero la vita 29 persone. Alla lettura della sentenza in aula si è scatenato un putiferio: abbiamo sentito i parenti e gli amici delle vittime urlare, rivolti al G.U.P., “bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio. 

Allora mi vien dire INGIUSTIZIA E’ FATTA!!! Tuttavia il nostro diritto e il sistema giudiziario annesso  la pensano diversamente. Vediamo. Intanto la visione distorta del processo è rappresentato dalle aspettative create dall’intero apparato giudiziario: Procure della Repubblica e avvocati poco etici. A proposito di avvocati, non tutti per carità, ma spesso sento dire «il mio avvocato mi ha detto che ho ragione da vendere» – oppure « la Procura Tal dei Tali ha emesso l’avviso di garanzia e intanto è a processo e l’avvocato è certo della condanna» ( che poi si dice l’informazione di garanzia che per partito preso è già una condanna). Dunque pare che ci sia una “verità assoluta”, prima di tutto e di tutti, che trova cittadinanza non già nel diritto ma nelle funzioni esercitate da taluni che il diritto prevede: se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole altrimenti il sistema giustizia ha fallito. Un’idea, questa – come ha scritto il Presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza nella sua lettera aperta al Ministro Salvini -, “spaventosa perché presuppone che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, la condanna il suo trionfo e che il buon giudice sia colui che assevera incondizionatamente l’ipotesi d’accusa”.

Non è mia intenzione puntare l’indice contro qualcuno ma credo innanzitutto che taluni “uomini di Stato” e altri maestri dell’arte di arrangiarsi – nel mondo della giustizia –  diano e amano dare molta enfasi alle loro indagini, dentro e fuori l’Aula. Poi, vi invito a riflettere su quest’altro passo: « sono sempre i P.M. ha rilasciare interviste e mai i giudici», comunque sapete da chi sono supportati questi signori del diritto? Da noi giornalisti! Siamo noi giornalisti che raccontiamo le vicende giudiziarie la maggior parte delle volte sposando solo le tesi dell’accusa. Ed è una opinione davvero maledettamente vera  e suffragata da diverse indagini socio-umane-statistiche. Tanto per dirne una, l’Università di Bologna, ha rilevato, analizzando gli articoli di cronaca giudiziaria, un inadeguato distacco tra la gente comune e la sua idea di giustizia, tra il potere giudiziario e la politica, quasi tutti ideologicamente invasati dal dogma « ognuno per se».

Tornando all’oggi e ai giornalisti, per diritto di cronaca, chi un po’ frequenta i palazzi di giustizia sa benissimo che la calca dei giornalisti c’è solo casomai il primo giorno del processo, o tutt’al più quando depone l’imputato e il giorno della sentenza. Ma la compagine dei responsabili di questo disordinato meccanismo si arricchisce anche di politici e rappresentanti istituzionali che senza conoscere minimamente gli atti di un processo lanciano strali contro i magistrati che fanno solo il loro lavoro, prendendo a volte decisioni scomode e coraggiose. Che paradosso!

Alla fine dei giochi chi paga il conto in termini di serenità  (e qualche volta della propria vita) è appunto quel povero giudice che ha dovuto emettere una sentenza oltremodo scomoda ma in linea con il vituperato diritto.

Come ha detto il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, benché sconfitto nel processo: «La sentenza merita rispetto, così come rispetto è dovuto al giudice ed alla funzione dallo stesso esercitata, fermo restando il diritto di critica. Le aggressioni verbali in aula dopo la lettura della sentenza non possono essere tollerate, così come non è accettabile il dileggio del magistrato da chiunque posto in essere”. Per il procuratore, “il giudice, nella solitudine della camera di consiglio, decide in piena indipendenza, senza dover assecondare le aspettative della opinione pubblica, attenendosi solo alla legge ed alle risultanze processuali».

L’incapacità di presentare con le proprie vesti il “diritto”, corroso da giustizialismo e da vittimismo, trapanato da aspettative mediatiche false e incongrue, siamo arrivati al paradosso che “La vittima è l’eroe del nostro tempo”; essa garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che sia in grado di ristorare le vittime. Ma non tutti siamo uguali e anche tra le vittime c’è un’abissale differenza.

È tempo però di superare questo paradigma paralizzante. C’è bisogno di giustizia, vera, sacrosanta, utile. La vittima e il presunto colpevole devono essere ricondotti nell’alveo delle garanzia e della certezza della pena. I processi devono “donare” la loro liturgia nelle aule di tribunale, le parti in causa devono abbandonare la catechesi della mediaticità a senso unico, la verità giudiziaria deve essere tale, intonza e mai compromessa, libera dai vincoli della mediocrità. Bisogna tracciare le prassi per dare credito al futuro e spietatamente devono essere abolite quelle regole infami e non scritte, incomprensibili, che hanno già decretato a prescindere il futuro.

FRANCO MARELLA

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